La collana Instrumenta della Universitat de Barcelona accoglie in tre corposi volumi (nn. 6, 10 e 14) l'edizione scientifica delle cinque campagne di scavo che il gruppo di studiosi spagnoli, coordinato dai curatori dei volumi, ha condotto tra il 1990 e il 1994 sul Monte Testaccio a Roma. Si tratta di un'edizione monumentale che mette a conoscenza del pubblico con tempi relativamente rapidi i dati analitici e le prime importanti interpretazioni di un'indagine puntuale e metodica, che si è proseguita negli anni successivi ed è tuttora proficuamente in corso.
La struttura dei volumi è sostanzialmente identica e ciò permette di prendere in considerazione l'intera opera globalmente, seguendo gli archeologi del Testaccio nel loro lavoro e nei loro ragionamenti, come se fossimo lì con loro a faticare su quella inesauribile, affascinante e titanica montagna di cocci: archivio storico inimitabile del commercio romano antico e al tempo stesso luogo mitico, simbolo quasi - fino al giorno d'oggi - del costume popolare romano.
Questa rassegna non può entrare nei dettagli dei singoli contributi e neppure dare conto della quantità abbondantissima di dati archeologici ed epigrafici che la ricerca va accumulando. Prende atto invece con soddisfazione che sulla sommità del monte e lungo le sue scabrose pendici archeologia ed epigrafia hanno ritrovato la loro vocazione comune e la loro fascinosa interdipendenza, come richiede quel termine stesso di 'epigrafia dell'instrumentum', che contiene in sé la centralità del testo iscritto e insieme la concretezza della strumentazione materiale che quel testo riceve e tramanda: un punto di incontro tra alterità e identità che il genio di Enrico Dressel aveva perfettamente intuito e che l'équipe spagnola magistralmente rinnova in un crocevia dove i diversi sistemi di fonti si incontrano quasi naturalmente.
I volumi sono distinti in due parti: la prima - necessariamente ma non esclusivamente catalografica - dà conto del progredire degli scavi e del continuo ampliamento dei corpora di iscrizioni dipinte, bolli e graffiti schedati in relazione alla evoluzione dei loro supporti, prevalentemente anforari; la seconda parte accoglie studi implicati con l'analisi delle anfore del Testaccio (sia tipologiche che archeometriche), con la collina stessa e il suo ruolo urbano, con la cultura dell'olio nei suoi diversi aspetti nel mondo romano e tardoantico.
Le relazioni di scavo espongono con chiarezza gli obiettivi di ciascuna campagna e i metodi di indagine. Lo scavo procede ovviamente per aree di superficie molto limitata e per livelli, mediamente di 20 cm di spessore. La raccolta del materiale è integrale. Tutti i frammenti epigraficamente e morfologicamente utili vengono conservati, gli altri (una volta schedati) vengono riseppelliti in casse nel luogo stesso di provenienza. Gli obiettivi variano di anno in anno: dalla ricerca delle modalità di contatto tra le due piattaforme del monte (originaria e adiecta), perseguita nel 1990 con il risultato rilevante della individuazione del profilo scalonato della collina originaria (poi confermato dal ritrovamento nella campagna successiva di un muro d'anfore), alla ricerca di materiali più antichi a quote inferiori del pendio stesso (lo scavo del 93-94 ha raggiunto livelli dei primi anni di Antonino Pio, attorno al 145 d. C., ricchi di anfore tripolitane), alla ricerca di una datazione convincente di alcuni elementi della 'pelle' del monte, come la strada di ascesa, ora datata al 1849 (secondo un'ottica diacronica di approccio al sito, che rappresenta uno degli aspetti metodologicamente rilevanti dell'intero progetto).
Sappiamo dunque ora che le anfore africane venivano frantumate alla base del monte, mentre le betiche erano portate in cima quattro alla volta con asini o altro, e venivano rotte in situ talora con un colpo di piccone tra collo e anse (ciò ha permesso fortunatamente di conservare frammenti di grandi dimensioni); che gli scarichi erano fatti in modo molto puntuale, tanto che da un metro quadrato all'altro possono apparire materiali molto diversi anche se contemporanei; che il monte cresceva ordinatamente di 60 in 60 cm (quanto il diametro di una Dressel 20) e che la quota più alta fu raggiunta intorno al 149 d. C., e solo dopo quella data si organizzò il pendio in modo tale da addossare ad esso i nuovi scarichi (e questo spiega perché i materiali più recenti si trovino anche più in basso).
Le iscrizioni dipinte - notano gli autori (1.101) - dovevano esistere su tutte le anfore provenienti dalla Betica: solo il tempo e l'azione dell'archeologo ne hanno distrutte una gran quantità di tracce. Ciononostante, lo studio dei tituli picti delle Dressel 20 si è arricchito di una massa enorme di dati finalmente interpretabili anche stratigraficamente. Sappiamo ora che il materiale arrivò al Testaccio per lotti, creando diversi accumuli lenticolari che riflettono i diversi arrivi dalla Betica passati per i magazzini e poi ordinatamente scaricati: quegli accumuli possono ora essere raggruppati per conventus (riconoscibili nel titulus delta del sistema elaborato da Dressel e continuato dall'équipe spagnola). Tra le molte novità, ricordiamo il ritrovamento di un piccolo nucleo di iscrizioni dalla paleografia completamente differente (i c. d. tituli theta), tutte databili ad un momento ristretto della metà del II secolo, che vengono ora interpretate come la certificazione dell'estrazione dall'anfora immagazzinata nei depositi urbani di una certa parte dell'olio, necessario alle lampade per il culto delle divinità venerate negli stessi horrea. Ricordiamo anche la comparsa per la prima volta di un gruppo consistente di iscrizioni dipinte su anfore africane dell'età di Antonino Pio, secondo un sistema diverso ma non troppo dissimile da quello delle anfore betiche, anche se la quantità e lo stato di conservazione del materiale, molto frammentario, ancora non ne permette un'esegesi chiara e convincente.
Anche il catalogo dei bolli ceramici è aumentato a dismisura (ed è ora consultabile in rete nel sito del Ceipac); ma continua a funzionare il sistema di ordinamento ideato da Dressel per nomen, cognomen e praenomen, e la distinzione delle impronte in base alla loro diversa posizione sul corpo dell'anfora. Le anfore betiche bollate sono circa una su cinque (ma, anche se la sola campagna del 1990 fruttò più di 10 tonnellate di Dressel 20 (circa 350 anfore), è prematuro trarre conclusioni generalizzabili).
I nuovi apporti (tra cui molti bolli inediti, indizio del raggiungimento di strati anteriori a quelli conosciuti finora ) sono accompagnati da un'ottima documentazione grafica analitica sia del bollo che del supporto, che fa da base ad alcuni approfondimenti di grande interesse mirati a individuare possibili rapporti costanti tra bolli e profili delle singole anfore, alla ricerca delle 'mani' dei figuli: è un'indagine difficile, che parte dall'idea che ogni mano possa produrre in un determinato lasso di tempo un profilo distinto, e che ogni figulo bollasse (all'interno del gruppo di produzione) le anfore che produceva. La ricerca ha bisogno naturalmente di un gran numero di orli associati ad anse bollate; i primi risultati cominciano a farsi vedere; e certo il futuro riserverà nuove sorprese. Si tratta, in sostanza, di valutare la possibilità di costruire una tipologia su base morfologico / epigrafica: un obiettivo che ci eravamo posti, anni fa, studiando le anfore bollate dagli scavi dell'officina di Visellio a Brindisi, verificandone la difficoltà, ma anche la concreta possibilità di indicare nuove strade di ricerca, che devono essere suffragate da una base statisticamente sufficiente di materiali coerenti.
Anche la quantità di graffiti (che recano ora nomi, ora lettere, ora numeri) si è fatta molto più cospicua. Il catalogo li distingue tipologicamente, ma anche in base alla diversa posizione sul corpo dell'anfora, riflesso del momento in cui l'incisione fu praticata: sulla parte inferiore del ventre nell'argilla semisecca mentre l'anfora si trovava capovolta in attesa della ulteriore lavorazione, sul collo invece nell'argilla ancor fresca al momento della tornitura, e prima dell'incollatura delle anse, che infatti qualche volta li coprono. Si tratta di una osservazione 'archeologica' utilissima, che richiama quella che abbiamo avuto la fortuna di compiere sui materiali brindisini di Visellio, dove le frequenti ditate impresse sui marchi già presenti sulle anse ci hanno dato la prova della anteriorità delle operazioni di bollatura delle anse rispetto al momento del loro incollaggio al corpo dell'anfora (con le conseguenti riflessioni sulla forte divisione del lavoro e sul carattere manufatturiero di quell'officina).
L'interpretazione dei diversi tipi di graffiti (sia di II che di III secolo) non è ancora sicura, anche se si tende a metterli giustamente in relazione con operazioni interne all'organizzazione dell'officina e con la stagionalità della fabbricazione delle anfore. Sarà interessante notare che le anfore che presentano contemporaneamente più tipi di incisione sono praticamente assenti.
Una consistente minoranza (15-20%) delle anfore del Testaccio sono - com'è ormai noto - di provenienza africana, anche se è ovviamente difficile generalizzare i rapporti quantitativi rispetto al materiale betico e i ricercatori spagnoli si attengono ad una estrema prudenza. I frammenti sono disposti in genere in strati orizzontali che formano una sorta di borse, intenzionalmente compattate. Negli strati della metà del II secolo le anfore vengono dalle regioni costiere dell'Africa Proconsolare: quelle tunisine prevalgono sulle tripolitane, mentre queste ultime sono del tutto maggioritarie negli strati di III secolo. Si tratta di un fenomeno che può essere interpretato sulla base del mutato quadro storico intervenuto con la dinastia dei Severi; ma appare interessante la prevalenza delle tripolitane anche negli scarichi più antichi raggiunti dalla campagna del 93-94, che ha intercettato nei primi anni di Antonino Pio quasi solo anfore africane di forma Tripolitana I.
Anche in questo caso va segnalata l'ottima documentazione grafica di questi materiali, che si giovano ora - grazie alla loro provenienza stratigrafica - delle datazioni indicate dall'epigrafia delle contestuali iscrizioni dipinte betiche (tituli delta). I disegni documentano puntualmente anche gli scarsi resti attribuibili ad altre tipologie di anfore di varia origine mediterranea, prevalentemente vinarie o per salse di pesce (alcuni approfondimenti riguardano i pochi esemplari di anfore mauretane o lusitane). I dati non sono marginali: si pensi, ad esempio, all'abbassamento all'età antonina della cronologia finale delle Haltern 70 (più dubbio il rialzamento alla stessa età della prima circolazione delle Almagro 50).
E' impossibile dare conto dei tanti studi che danno sostanza alle seconde parti dei tre volumi. Uno spazio importante è occupato dalle analisi archeometriche delle Dressel 20, che hanno preso in considerazione materiali provenienti sia dal Testaccio che da diversi siti delle valli del Guadalquivir e del Genil (le anfore erano fabbricate con argille locali ben depurate e non smagrate cotte prevalentemente in atmosfera ossidante tra 700 e 800°), compiendo poi approfondimenti analitici sui materiali delle officine del Tejarillo e di La Catria L'archeometria delle anfore africane ci aiuta invece a correggere, ove necessario, alcune attribuzioni archeologiche di frammenti amorfi, assegnando alla Tripolitania ciò che era stato macroscopicamente attribuito alla Tunisia e viceversa, segnalando un rischio che i più esperti ceramologi ben conoscono sin da quando si è cominciato a riconoscere, alcuni decenni fa, la presenza abbondantissima di materiale anforario africano nei siti di tutto il Mediterraneo.
L'indagine gravimetrica ha misurato la densità della collina mettendone in evidenza la sua evoluzione nel tempo. Conosciamo ora la massa totale del deposito, e sappiamo che un primo nucleo di materiale, poco addensato, fu accumulato in modo disordinato, e che solo in un secondo momento i frammenti furono scaricati in forme più organizzate. Resta aperto l'interrogativo sulla composizione di questo nucleo più antico, che dovrebbe rimandarci all'originaria formazione del Testaccio (si tratta sempre di materiale oleario? e in tal caso si tratta già di produzioni spagnole o di arrivi di merci forse ancora di origine italica?).
Alcuni contributi investono il Testaccio nella sua natura di struttura eccezionale della morfologia urbana. Tra questi, lo studio della flora attuale del monte ci aiuta a mettere a fuoco un processo evolutivo che nel corso di 18 secoli ha portato alla naturalizzazione della copertura vegetale dello scarico ceramico, che la recente urbanizzazione sta portando a una lenta e banalizzante alterazione. E' uno sguardo 'moderno' che ci aiuta a capire meglio la natura del progetto spagnolo, che - indagando minuziosamente i faldoni dell'archivio sepolto del Monte dei Cocci - non dimentica la sua vita millenaria e la vitalità del suo ruolo urbanistico, che i lettori troveranno illustrato nelle belle pagine di M. Aguilera, El Monte Testaccio y la llanura subaventina (Roma 2002) che contestualizzano nel tempo e nello spazio il monte e i suoi frammenti di ceramiche iscritte: un archivio che - grazie all'impegno dei colleghi spagnoli e in primo luogo di José Remesal, che li coordina e li anima - ci riserveranno ancora per anni affascinanti sorprese.
J.M. Blázquez Martínez / J. Remesal Rodríguez (eds.): Estudios sobre el Monte Testaccio (Roma). Vol. 1 (= Col·lecció: Instrumenta; Vol. 6), Barcelona: Universitat de Barcelona 1999, 558 S., ISBN 978-84-475-2112-8, EUR 59,00
J.M. Blázquez Martínez / J. Remesal Rodríguez (eds.): Estudios sobre el Monte Testaccio (Roma). Vol. 2 (= Col·lecció: Instrumenta; Vol. 10), Barcelona: Universitat de Barcelona 2001, 498 S., ISBN 978-84-475-2623-9, EUR 46,88
J.M. Blázquez Martínez / J. Remesal Rodríguez (eds.): Estudios sobre el Monte Testaccio (Roma). Vol. 3 (= Col·lecció: Instrumenta; Vol. 14), Barcelona: Universitat de Barcelona 2003, 678 S., ISBN 978-84-475-2769-4, EUR 52,00
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