Il volume contiene gli atti del convegno "Politics and Society in Spanish Italy", svoltosi a Roma tra il 12 e il 14 dicembre 2003 e raccoglie, organizzati in 4 sezioni, 19 densi saggi nei quali è programmaticamente assente la dimensione microstorica. Stesi da storici italiani, spagnoli, canadesi, statunitensi, francesi, i saggi spaziano dalla politica all'economia, dalla religione alla società, dalla storia dell'arte alla cultura, offrono un'ampia panoramica dello stato attuale degli studi sull'"Italia spagnola" e, nel frattempo, aprono - come sottolineano tutti gli autori - nuove prospettive di ricerca sul tema.
Giustamente i due curatori ricordano che a partire dagli anni settanta del Novecento è venuto meno quel nazionalismo storiografico che, per lungo tempo, aveva impedito di considerare nel loro giusto peso le connessioni tra la storia spagnola e quella italiana in Età moderna o che aveva considerato la storia italiana del '500-'600 esclusivamente nell'ottica della decadenza e della subalternità alla Monarchia cattolica asburgica. Nuovi orizzonti storiografici, che si sono nel frattempo aperti, hanno infatti rimarcato gli elementi di complessità della presenza spagnola in Italia e i rapporti reciproci non solo politici, ma anche religiosi e culturali tra i due paesi.
Ovviamente, una vicenda storica come quella della presenza politica spagnola in Italia, che dura all'incirca due secoli (molto di più in Sardegna e in Sicilia), conosce diverse fasi e momenti, alcuni più noti e più studiati, altri forse meno come i decenni del regno di Carlo II (1665-1700) sui quali ancora oggi sono scarsi gli studi, a confronto con quelli che sono stati dedicati a Carlo V, a Filippo II e ai loro successori.
Le categorie che possono permettere una proficua comprensione della storia dell'Italia spagnola sono quelle riguardanti l'integrazione e il conflitto, come sostiene Benigno nel suo saggio sulla Sicilia, sono due facce della stessa medaglia.
L'universo aristocratico italiano, nei suoi più vari elementi e sfaccettature (Muto) fu inserito a pieno titolo negli apparati politico-amministrativi, nelle strutture cortigiane, nel sistema degli onori della Monarchia cattolica; alla nobiltà continuò ad essere assicurato dalla Spagna il ruolo egemonico che deteneva nella società ed essa, con il suo consenso e la sua lealtà - premiati con ricompense, benefici e cariche pubbliche - consentì agli Asburgo il pieno controllo dell'Italia (Álvarez Ossorio). Negli eserciti ispanici fu notevole la presenza di nobili italiani che non abbandonarono l'antica tradizione della pratica delle armi e che, al servizio della Spagna e combattendo contro i turchi e gli eretici in ogni angolo d'Europa e del Mediterraneo, vissero un'importante esperienza di vita e consolidarono le fortune della propria famiglia (Donati).
Pur se da parte della Spagna vi fu un riconoscimento delle specificità istituzionali dei singoli territori sui quali essa esercitava sovranità (entrati in tempi diversi e con modalità differenti a far parte della monarchia), in essi vi fu una ristrutturazione degli apparati politico-amministrativi che portò all'introduzione di nuove istituzioni, a più stringenti forme di controllo sugli uffici periferici (Peytavin) e all'emergere di nuove figure professionali legate al mondo della burocrazia.
L'integrazione fu favorita anche dalle connessioni familiari italo-spagnole che si vennero a determinare, esemplificate ai gradini più alti dal matrimonio di Cosimo I di Toscana con la figlia del vicerè di Napoli Eleonora de Toledo (Hernando Sánchez), e, soprattutto, da una comune consapevolezza della "conformità" esistente tra italiani e spagnoli negli usi e costumi, nella lingua, nelle pratiche religiose, nel culto di particolari santi (Schütze).
Riconoscere che gli Asburgo promossero in tutti i modi la propria immagine come difensori del cattolicesimo e protettori del papato, al punto da trasformare entrambe Roma e la Basilica di San Pietro rispettivamente in una città e in una chiesa imperiale spagnola edificata con il denaro proveniente dalla Spagna e dai suoi vicereami italiani (Dandelet), non significa, però, avvalorare la tenace tradizione storiografica che vede nella Spagna un paese la cui vocazione storica era sempre stata quella della difesa della fede cristiana e dell'ortodossia.
Vi furono una Spagna e un'Italia percorse da fermenti ereticali o eterodossi che giunsero a lambire gli stessi collaboratori di Carlo V, esponenti dell'alta aristocrazia, cortigiani dei vicerè napoletani, funzionari statali, vescovi e cardinali (Firpo). Anche i rapporti con i pontefici o con i vescovi e arcivescovi napoletani, milanesi e siciliani non furono sempre facili o scontati. Innumerevoli conflitti intervennero, infatti, tra le autorità spagnole e quelle ecclesiastiche, le prime tese ad affermare un forte regalismo che le portava a rivendicare particolari diritti nella sfera del potere ecclesiastico, le seconde a difendere e ad ampliare la giurisdizione spirituale o le immunità di cui godevano (Borromeo).
A metà Seicento, le ultime fasi della guerra dei Trent'anni e l'accentuarsi della pressione fiscale misero in crisi il "sottosistema Italia" e l'integrazione tra le sue varie parti (Musi), provocando nel 1647-48 movimenti insurrezionali a Napoli e in Sicilia, nella seconda metà del secolo, in Sardegna, atteggiamenti di aperta sedizione nobiliare e nel 1674-78 la rivolta di Messina. Erano questi i segni delle difficoltà che, in un periodo di crisi, la Spagna aveva sia nel garantire alle élite italiane la ripartizione delle risorse e dei privilegi, sia nel governare la forte competizione, determinatasi al loro interno, per godere della "grazia" regia e del favore dei "validos".
Com'è noto, in Italia la Spagna non soltanto governava sulla Lombardia, sul regno di Napoli, sulla Sicilia e sulla Sardegna, ma teneva legati a sé con vincoli di protezione la maggior parte degli altri stati italiani. Il volume opportunamente fa spazio a due contributi che esaminano le vicende di due stati indipendenti che si trovarono a dover fare i conti con l'ingombrante presenza spagnola: la repubblica di Genova e quella di Venezia. A mio parere sarebbe stato opportuno che altri saggi fossero dedicati ad altre realtà territoriali italiane (il ducato di Savoia, il granducato di Toscana, i ducati padani), ma la scelta dei curatori ha un senso perché gli stati presi in questione sono due repubbliche, ossia due realtà che si reggevano con ordinamenti politici antitetici a quelli monarchici.
Sia Pacini che Martin sottolineano la necessità di superare il vecchio paradigma del declino delle repubbliche e dell'idea repubblicana in Italia nel corso del XVI secolo. Anche se Genova era parte integrante del sistema spagnolo e i suoi nobili - non senza contrasti - accettavano i modelli di comportamento dell'aristocrazia spagnola, essa produsse una cultura politica che finora ha ricevuto scarsa attenzione dagli storici, nonostante l'enorme quantità di scritti sull'argomento. Secondo alcuni trattatisti, tale cultura politica delineava addirittura un modello di sviluppo economico e di relazioni politiche diverso da quello che avrebbe comportato l'inserimento nel sistema spagnolo.
L'instabilità politica genovese era contrapposta alla stabilità di Venezia, la quale era riuscita a sottrarsi alla sudditanza alla Spagna e presentava ordinamenti pubblici che avevano impedito lo scoppio di guerre civili.
I saggi di Malanima e di Marino, dedicati all'economia, l'uno per l'Italia del centro-nord, l'altro per l'Italia meridionale, cercano di superare la tradizionale visione che vedeva nella Spagna la causa della decadenza economica italiana dovuta soprattutto all'alto livello di tassazione introdotto. I due autori considerano piuttosto cause endogene della crisi economica, legate cioè al fatto che quella italiana era ormai un'economia matura incapace di ulteriori sviluppi e che quella meridionale era diventata ormai un'economia periferica, per di più travagliata da un banditismo endemico e dalle prepotenze dei signori feudali. La Cohen poi, analizzando il tema della condizione femminile in rapporto ai due modelli ai quali le donne uniformavano il loro comportamento (subordination e agency), tema fondamentale per l'autrice, secondo la quale ogni ricostruzione storica che non prenda in considerazione la storia senza donne è incompleta (anche se è necessario differenziare per classe e status, per ambiti cronologici, per contesti particolari), riporta il discorso sull'importanza della famiglia, specie di quella aristocratica che con il suo network di amici e clienti rappresentava un ulteriore elemento di connessione tra la monarchia e gli stati italiani.
Come si vede, sono tanti gli aspetti che uniscono la storia italiana a quella spagnola sì che, in conclusione, possiamo dire con Amelang: "I fear that we have crossed the Tyrrhenian so many times that we are now seasick". Quella spagnola è quindi una storia scritta solo in parte, i cui numerosi frammenti aspettano non solo una sintesi, ma una nuova sistemazione.
Thomas James Dandelet / John A. Marino (eds.): Spain in Italy. Politics, Society, and Religion 1500 - 1700 (= The Medieval and Early Modern Iberian World; Vol. 32), Leiden / Boston: Brill 2007, xiv + 594 S., ISBN 978-90-04-15429-2, EUR 139,00
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