Il denso volume appare in un periodo di rinnovato impulso degli studi sull'epigramma epigrafico arcaico (cui l'Autore stesso da tempo contribuisce) e sugli aspetti della comunicazione / mediazione verbale e visiva nel mondo greco. Non è casuale il fatto che nello stesso anno compaiono i due soli libri dedicati al genere pre-ellenistico nelle nuove prospettive, la monografia di J. Day e gli Atti del Convegno sull'epigramma arcaico e classico tenutosi a Rauischholzhausen nel 2005. [1] I volumi sono solidali: nel secondo, oltre alla discussione di W.D. Furley sull'argomentare di Day presentato in un contributo del 1994, si trova lo status quaestionis degli studi sull'epigramma arcaico che manca nel nostro libro. Il lettore di quest'ultimo si deve anche munire dei Carmina epigraphica Graeca (CEG) di P.A. Hansen, il repertorio di riferimento per le citazioni (Day ha comunque un'ottima conoscenza della letteratura epigrafica, che usa nella discussione dei problemi testuali).
In un periodo ventennale di studi - che gli ha consentito di acquisire i risultati della dottrina recente nei diversi ambiti disciplinari interessati e il necessario metodo di analisi a pieno campo - Day ha maturato una salda convinzione circa la natura e il ruolo dell'epigramma inciso sui manufatti dedicati agli dei nel mondo greco arcaico. Esso era scritto per essere (ri)pronunciato, così da rappresentare per i lettori-ascoltatori-spettatori l'atto rituale originario di dedica alla divinità locale dell'oggetto di pregio da cui esso era inscindibile. Attraverso il complesso sistema emozionale di percezioni mentali e visive ogni volta suscitato in un pubblico "poeticamente competente", il componimento / manufatto aveva il potere di rigenerare in perpetuo quell'atto di successo, così da consentire a chi frequentava quel santuario di entrare nel rapporto di reciprocità negoziale fra umano e divino stabilito in origine e di riconoscersi nella rete di comunicazione e di efficacia religiosa, sociale ed estetica creata nel mondo greco arcaico da un rito di dedica. Il volume, che illustra tale "tesi" in un primo capitolo introduttivo, è inteso come la sua dimostrazione, attraverso cinque ulteriori capitoli che, per portare alla definizione più completa del sistema performativo connesso da Day con la dedica arcaica, evidenziano di volta in volta, nel quadro generale, una delle sue componenti.
Prima e fondamentale è la ricostituzione del contesto del manufatto di dedica iscritto (Cap. 2). Il risultato, sostenuto da una meticolosa rassegna degli espedienti applicati a ciascuna dedica per attrarre e guidare alla lettura del suo testo, è scontato, ma degno di sottolineatura e le tabelle riassuntive (76-84) presentate dall'Autore ne sono ormai imprescindibile illustrazione: esiste un rapporto di funzionalità intrinseca fra l'oggetto rappresentato, il sostegno che lo evidenzia, la scritta che - in quanto pronunciata - lo connota di valori, il luogo di collocazione e la circostanza che forniscono ed esaltano il contesto religioso e sociale per l'esplicazione di intenzioni e pratiche (è evidente che questa prospettiva supera la questione della "formularità" degli epigrammi e quella della literacy richiesta, che Day giustamente riporta alla relazione dinamica lettore-mediatore / spettatore / oggetto connotato e operativo nel suo contesto).
Su questo sfondo, diventa inevitabile la valorizzazione del termine che negli epigrammi (per lo più, e soprattutto in Attica) qualifica la dedica, quell'agalma che Day, dopo un unico richiamo al senso comune attribuito al termine (2: "splendid gift"), giustamente lascia non tradotto in tutto il volume. L'analisi delle ricorrenze, sullo sfondo della letteratura poetica e religiosa che vi è direttamente correlata e dei suoi meccanismi funzionali, bene evidenzia il valore di ciò che, per la sua intrinseca qualità, provoca un senso di piacere estetico e induce a una risposta positiva, diventando perciò strumento / espressione / effetto della relazione fra gli umani che offrono e le divinità che reagiscono, ogni volta che qualcuno ne pronuncia il richiamo (non sorprende che il capitolo, il terzo, termini con l'Appendice "How not to define agalma in inscriptions", 124-129; sorprende invece il mancato rilievo di un aspetto fondamentale dell'iconografia greca, la coloritura, vistosa, delle statue).
E' in fondo lo stesso valore connotativo della "formula di denominazione" della divinità interessata dalla ricerca di contatto tramite l'atto rituale di dedica (non per caso l'oggetto del capitolo seguente). Come il suo analogo nella poesia epica e religiosa, l'epiteto vocalizzato ha un forte potere evocativo della figura divina che identifica e del rituale che la persuade alla presenza e al beneficio, per lo più associato con una festività (il modello esplicito, con qualche rischio interpretativo, è quello dell'Atena delle dediche sull'Acropoli ateniese, lette dal loro pubblico attraverso "filtri panatenaici"). D'altra parte, la dedica ha una precisa funzione sociale, che ne spiega moventi, contesto, espressione e perennizzazione: inserita in un processo ripetuto e integrato di ritualità, essa è chiamata a dichiarare il successo di una famiglia e, attraverso la reperformance, ad offrire la chiave per la perennizzazione di un rapporto di successo col divino: la fine analisi delle dediche sulle korai ateniesi e degli atleti che Day compie nel penultimo capitolo è significativa (anche se, ancora una volta, non risolutiva del significato delle immagini femminili offerte, probabilmente non unico).
Il cerchio si chiude con il rilievo dell'ambito semantico chiamato a definire e illustrare il rapporto tra offerenti e divinità, le "charis-words", cui opportunamente è dedicato il capitolo finale. L'analisi delle ricorrenze, sullo sfondo delle acquisizioni degli studi sulla reciprocità nella religione greca, sugli inni sacri e sulla performance, porta a un risultato difficilmente discutibile: la dedica che ne fa uso è il luogo del piacere estetico che lega offerente e ricevente in una relazione di "godimento" reciproco, espresso dagli oggetti e dalle occasioni e perciò riattivabile.
A prezzo di una serie fastidiosa di enunciazioni programmatiche, sentenze apodittiche, variazioni parafrastiche e di un tecnicismo compiaciuto, la dimostrazione della tesi di Day si può considerare riuscita, trovando la sua forza nella valorizzazione dei risultati della ricerca su "Art and Text" e dell'antropologia della religione e nella concatenazione argomentativa.
A conti fatti, il volume ha il merito di aver indicato e sistematizzato una formula di lettura della dedica epigrafica arcaica ormai irrinunciabile: quale che sia la prospettiva disciplinare di formazione, occorre praticarne anche le consorelle, più o meno tradizionali, e riconoscere alla cultura e alla società antiche la dimensione performativa che è loro propria. [2]
Note:
[1] M. Baumbach / A. Petrovic / I. Petrovic (eds.): Archaic and Classical Greek Epigram, Cambridge 2010.
[2] Minimi i refusi: l'omissione di uno spirito nel greco (189, CEG 235, v. 2: echoi); l'inglese also traslitterato in greco (211, nt. 142). Di buona qualità sono in generale le illustrazioni. Nella Bibliografia, gli Atti "forthcoming" della London Conference on Epinician, a cura di P. Agócs et alii, sono ora editi: Receiving the Komos: Ancient and modern Receptions of the Victory Ode, "Bulletin of the Institute of Classical Studies" Supplement 112, London 2011. G.B. Gianni (286) sta per G. Bagnasco Gianni.
Joseph W. Day: Archaic Greek Epigram and Dedication. Representation and Reperformance, Cambridge: Cambridge University Press 2010, XXII + 321 S., 19 s/w-Abb., ISBN 978-0-521-89630-6, GBP 60,00
Bitte geben Sie beim Zitieren dieser Rezension die exakte URL und das Datum Ihres letzten Besuchs dieser Online-Adresse an.