L'epoca medievale è stata definita come "une vaste entreprise de traduction" [1], alimentata dalla ricchezza dei contatti tra lingue e culture, ma anche dalla complessa dinamica tra identità locali e sovralocali, tra spinte particolaristiche e universalistiche. L'importante topos della translatio studii et imperii, che incarna l'idea di una trasmissione del potere politico e del sapere da un'istituzione imperiale all'altra, indica appunto come la ripresa di testi, immagini e motivi costituisca un momento fondativo per le società medievali. Rivolgendosi all'analisi di tale aspetto nelle pagine introduttive del volume (Introduction: Rethinking Medieval Translation, 1-20), i curatori Emma Campbell e Robert Mills illustrano l'approccio seguito dagli undici contributi e dal saggio conclusivo a firma di Simon Gaunt: infatti i vari saggi, in cui sono considerati "episodi traduttivi" variamente dislocati nell'Europa medievale e relativi a testi in diverse lingue (francese, inglese, greco, italiano...), indagano i risvolti etici e politici delle pratiche traduttive medievali, coniugando alcuni assunti delle moderne teorie sulla traduzione all'analisi filologica e storico-letteraria.
Il concetto di traduzione alla base del volume risente dell'ampliamento di prospettive che ha caratterizzato gli studi traduttologici: la traduzione è considerata nella sua accezione più ampia, come evento e processo che coinvolge più attori, luogo dell'incontro con l'altro, o con gli altri, posto che nell'atto traduttivo risulta inscritto un certo tasso di polifonia. In linea con le riflessioni di Benjamin e Derrida [2] l'atto del tradurre si inserisce dunque nella problematica più ampia della ricezione e dell'attualizzazione di prodotti culturali, risultando collegato alla questione del significato non stabile indagata dalle teorie decostruzioniste. Naturalmente la traduzione non è limitata - per riprendere la classificazione di Jakobson [3] - al tipo interlinguale: sono considerate infatti anche pratiche traduttive meno "canoniche", come la prosificazione, particolare tipo di traduzione intralinguale, analizzato da Jane Gilbert (The Task of the Dérimeur: Benjamin and Translation into Prose in Fifteenth-Century French Literature, 164-183). Alla traduzione per immagini è dedicato il contributo di Catherine Léglu (Translating Lucretia. Word, Image and 'Ethical Non-Indifference' in Simon de Hesdin's Translation of Valerius Maximus's Facta et dicta memorabilia, 61-83), che si sofferma sull'evoluzione iconografica del suicidio di Lucrezia e sulle reinterpretazioni politiche e morali ad essa associate. La teoria derridiana costituisce dunque il quadro metodologico in cui sono analizzati i risvolti etici e politici della traduzione, sino ad arrivare al problema dell'intraducibilità, discusso da Simon Gaunt (Untranslatable: A Response, 243-255), per lo più sulla base del Divisement du monde, ma riferito anche ai problemi di ricezione del testo medievale da parte del lettore moderno.
Ugualmente sfruttate e messe alla prova sono le acquisizioni della critica postcoloniale [4], nonché la particolare prospettiva sviluppata da Venuti [5], che attraverso antinomie come "accoglienza / rifiuto" e "addomesticazione / assimilazione" pone l'accento sulla traduzione come pratica mirata a gestire in vario modo la differenza con l'altro (l'estraneità), riconoscendola, annullandola o, più spesso, risemantizzandola in vista dei bisogni e delle credenze della cosiddetta cultura bersaglio. Vari contributi tentano di stabilire come le opere medievali prendano in conto la differenza culturale. Analizzando la vita di Thomas Becket e le sue numerose ri-narrazioni (che giungono sino all'Ottocento), Robert Mills (Invisible Translation. Language Difference and the Scandal of Becket's Mother, 125-146) evidenzia come il tema della differenza culturale e linguistica - condensato nel topos della madre di origini pagane successivamente convertita - sia diversamente raffigurato nel processo di riscrittura: nelle opere medievali l'identità pagana della madre di Becket determina sul piano linguistico un'impossibilità di espressione, che necessita della mediazione altrui e che viene superata nel momento della conversione della donna. Talvolta l'indifferenza con cui gli autori medievali si pongono rispetto alle altre culture e alle altre lingue è funzionale alla trasmissione di particolari significati; in altri casi invece l'indifferenza è soltanto apparente: considerando il ruolo dei fixers (mediatori linguistici e culturali specialmente in situazioni di conflitto), Zrinka Stahuljak (Medieval Fixers: Politics of Interpreting in Western, 147-163) ricostruisce sulla scorta di varie opere (De recuperatione terre sancte di Pierre Dubois, le Chroniques di Jean Froissart, La prise d'Alixandre di Guillaume de Machaut) le riflessioni degli autori medievali sul problema della fedeltà linguistica, etica e politica dei fixers nei confronti di chi li ha ingaggiati. Specificamente incentrato su aspetti linguistici (e sulla questione dell'equivalenza della traduzione) è il contributo di Ardis Butterfield (Rough Translation: Charles d'Orléans, Lydgate and Hoccleve, 204-225), che si interroga sul problema della fluenza e dell'estetica della lingua d'arrivo, basandosi in particolare su opere anglo-francesi.
Centrale è la dinamica identitaria che ciascuna opera di trasposizione richiama: il tema è affrontato da Marilynn Desmond (On Not Knowing Greek. Leonzio Pilatus's Rendition of the Iliad and the Translatio of Mediterranean Identities, 21-40), che analizza il diverso atteggiamento con cui Petrarca e Boccaccio sfruttarono la traduzione latina dell'Iliade di Leonzio Pilato. Se Boccaccio si serv ì di questa traduzione interlineare per leggere l'opera omerica, per capirne il significato, in un continuo dialogo con l'originale greco e con la cultura bizantina (resi possibile grazie alla viva mediazione di Pilato), Petrarca, invece, insoddisfatto del livello stilistico della traduzione, pose l'accento sull'ormai insanabile distanza tra Oriente e Occidente, e sull'incapacità della cultura bizantina di raccogliere l'eredità classica. La dinamica tra ospitalità dell'altro e sfruttamento è anche alla base dello studio di Luke Sunderland sul ciclo di Buovo d'Antona (Bueve d'Hantone / Bovo d'Antona. Exile, Translation and the History of the Chanson de geste, 226-242). Noah D. Guynn (Translating Catharsis: Aristotle and Averroës, the Scholastics and the Basochiens, 84-106) mostra come nell'interpretazione degli effetti politico-sociali delle commedie medievali sia fondamentale conoscere il reale significato attribuito dagli autori medievali alla nozione di catarsi (mediata com'è noto dalla traduzione di Averroè della Poetica di Aristotele).
Alcuni contributi sono dedicati al problema del sacro, nodo essenziale anche nella riflessione di Benjamin e di Derrida. Particolarmente frequente nei volgarizzamenti medievali è la tendenza a cristianizzare opere della classicità, come mostra il caso dell'Ovide moralisé affrontato da Miranda Giffin (Translation and Transformation in the Ovide moralisé, 41-60): il disvelamento del significato religioso operato dal volgarizzatore è indice di un atteggiamento che non subordina il testo d'arrivo al testo-fonte. Anche la riscrittura del miracolo di Teofilo ad opera di Rutebeuf (cf. Emma Campbell, The Ethics of Translatio in Rutebeuf's Miracle de Théophile, 107-124) richiama il problema del rapporto tra il linguaggio e l'espressione del sacro: l'innovazione introdotta da Rutebeuf rispetto alla tradizione del miracolo di Teofilo (cioè l'aver trasformato il contratto di Teofilo nella lettera aperta del diavolo) influisce sul significato profondo dell'opera, determinando un continuo spostamento di piani (economico / religioso, privato / pubblico, demoniaco / divino). Il contributo di William Burgwinkle (The Translator as Intepretant: Passing in/on the Work of Ramon Llull, 184-203) si sofferma sulla visione del linguaggio nell'opera di Raimondo Lullo, che mostra una profonda fiducia nella possibilità di tradurre il sacro da una lingua all'altra.
Complessivamente il volume porta all'attenzione del lettore casi-studio di notevole interesse, anche perché interpretati alla luce di orientamenti teorici di grande attualità in ambito traduttologico. Il pericolo insito nel tipo di approccio scelto - vale a dire la forte carica ideologica di alcune categorie interpretative (si pensi in particolare ai lavori di Venuti), che potrebbero rivelarsi anacronistiche una volta applicate al Medioevo - appare generalmente superato grazie a una costante contestualizzazione delle opere e degli esempi discussi, nonché alla ridefinizione di alcune categorie, come quelle di alterità e di identità (linguistica, politica e culturale), che rispetto alla situazione medievale chiedono di fare i conti con una pressoché inesistente standardizzazione linguistica e con assetti geopolitici estremamente fluidi.
Note:
[1] Michel Zink: Préface, in: Translations médiévales. Cinq siècles de traductions en français au Moyen Âge (XIe - XVe siècles). Étude et Répertoire, 2 voll., dir. par Claudio Galderisi, vol. 1, De la translatio studii à l'étude de la translatio, Turnhout 2011, 9-12.
[2] Walter Benjamin: Die Aufgabe des Übersetzers, in: Idem: Gesammelte Schriften, 7 voll., Frankfurt/M. 1972, vol. IV, 9-21; Jacques Derrida: Des tours de Babel, in: Idem: Psyché. Invention de l'autre, Paris 1987, 203-235.
[3] Roman Jakobson: On Linguistic Aspects of Translation, in: On Translation, ed. Reuben A. Brower, Cambridge, MA 1959, 232-39.
[4] Susan Bassnett / Harish Trivedi (eds): Post-colonial Translation: Theory and Practice, London 1999.
[5] Lawrence Venuti: The Scandals of Translation: Towards an Ethics of Difference, London 1998; Lawrence Venuti: The Translator's Invisibility: A History of Translation, London 22008.
Emma Campbell / Robert Mills (eds.): Rethinking Medieval Translation. Ethics, Politics, Theory, Woodbridge / Rochester, NY: Boydell & Brewer 2012, 292 S., ISBN 978-1-8438-4329-0, EUR 60,00
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