Maria Elisa Garcia Barraco: "In petiis". Il sistema della pecia e la produzione del libro universitario nel Medioevo (= Collana Medievalia; 2), Rom: Arbor SapientiaE 2014, 146 S., einige Abb., ISBN 978-88-97805-15-1, EUR 28,00
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Suddiviso in cinque parti (L'origine del sistema della pecia; La nascita delle università e dei libri di testo; I petiarii e la produzione di testi peciati; Gli stationarii e la circolazione dei testi nelle università; I copisti e la trascrizione per exemplar e pecia) e corredato di una appendice, il volume intende proporre "l'esame sistematico [...] di tutti gli elementi di strutturazione seriale della produzione manoscritta inserita nel circuito della pecia" al fine di individuarne le tecniche di esecuzione e dimostrare "come la continuità del loro utilizzo abbia costituito la base dei procedimenti di composizione del libro moderno" (14).
Magistralmente illustrato da Jean Destrez nel 1935 ed oggetto di numerosi studi e ricerche [1], il sistema di produzione libraria entrato in uso nei primi decenni del sec. XIII si basava su exemplaria (ovvero testi-modello) formati da petiae, ovvero fascicoli (in genere di piccolo formato), lasciati sciolti (non rilegati) per consentirne l'affitto a quanti ne avessero fatto richiesta per poterne trarre copia oppure per correggere un testo già copiato. Il sistema ha dato origine a migliaia di manoscritti detti 'peciati' per la presenza di indicazioni di inizio o fine pecia registrate lungo i margini. I testi che hanno goduto di tale diffusione sono oltre 900 [2], mentre il numero indicato da Garcia Barraco ('482', a 53) è quello deducibile dalle liste di tassazione, dagli elenchi presenti negli statuti e da altra documentazione. La produzione per pecia non ha avuto per oggetto i soli testi nati o adottati dalle università, ma anche opere estranee all'insegnamento, quali, ad esempio, la Legenda aurea di Iacopo da Varazze e le raccolte di sermoni. Questo aspetto è sfuggito a Garcia Barraco che associa il sistema alle sole università.
Questo è probabilmente il meno grave degli errori in cui è incorsa la studiosa. Le pecie avevano caratteristiche paleografiche e codicologiche proprie e peculiari, diverse dai manoscritti peciati. Mentre le prime erano eseguite su pergamena di qualità mediocre, in grossa littera [3], e con un numero ridotto di compendi e abbreviazioni per agevolare il lavoro di copia, i manoscritti peciati non differiscono affatto - sotto l'aspetto codicologico, paleografico e della decorazione - dai comuni manoscritti realizzati nella stessa epoca se non per il modello testuale e la tecnica adoperata per la trascrizione. Scrive invece Garcia Barraco: "Redatta in una gotica spezzata e compendiatissima, di facile interpretazione solo per gli occhi già avviati da tempo alla lettura, la pecia non può mancare sul banco della lezione" (57). Alcuni dei più straordinari codici realizzati tra il sec. XIII ed il sec. XIV sono stati copiati da pecie (ad esempio la maggior parte dei capolavori miniati a Bologna). Sul banco di studenti e maestri non giungeva ovviamente il testo-modello ovvero le pecie dell'exemplar, bensì i manoscritti peciati, gli stessi ricordati (ma senza indicarne la segnatura) in appendice al volume (gli esempi sono tratti dal Catalogo aperto dei manoscritti Malatestiani: http://catalogoaperto.malatestiana.it/manoscritti/search2.htm).
Alla studiosa non è chiara la differenza tra peciae, exemplaria e manoscritti peciati e attribuisce caratteristiche dei primi ai secondi, e viceversa: "A tanta autorità testuale non corrisponde però un prodotto libro di qualità elevata. La pergamena è scadente, tende ad assottigliarsi, a perdere consistenza in poco tempo e a coprirsi di macchie di umidità dovute all'allestimento frettoloso dei pergamentari [...]. Ma il testo universitario nasce per essere letto, per passare di mano in mano [...] per essere riempito di appunti e di commenti durante la lezione. È quindi normale che le pecie presentino aspetti materiali di qualità inferiore agli standard dell'epoca, anche se mantengono una loro dignità formale" (53).
A proposito dei copisti ripropone vecchi ed ormai superati stereotipi: "Per il copista laico quel che conta è la rapidità del lavoro per trasformare il manoscritto in merce retribuita. Nelle botteghe universitarie, per non immobilizzare l'exemplar nelle mani di un unico scriba, si rilascia un solo fascicolo alla volta a copisti che eseguono un lavoro frenetico di copiatura a volte diretta a volte guidata da dettatura ad alta voce di testi smembrati di cui spesso non si afferra il significato" (35). È ormai provato che la produzione per exemplar e pecia non riduce in alcun modo i tempi di realizzazione di un singolo manoscritto [4]; inoltre i copisti - soprattutto a Bologna - in molti casi erano notai, quindi in grado di comprendere il significato di ciò che trascrivevano. Anche questi due aspetti paiono essere sfuggiti a Garcia Barraco.
È impossibile in questa sede dar conto delle inesattezze ed errori ortografici [5], imprecisioni ed affermazioni prive di riscontro scientifico [6], deduzioni errate [7], molte delle quali - temiamo - imputabili alla mancata conoscenza dei manoscritti. Il tentativo di illustrare il sistema della pecia ha offerto inoltre all'autrice anche il pretesto per numerosi - non sempre pertinenti - generici excursus su la nascita delle università, la 'morfologia libraria', la preparazione dello specchio di scrittura, gli 'elementi paratestuali', etc. Se da un lato la non comprensione del principio fondante del sistema oggetto di studio (ovvero la distinzione tra exemplaria e manoscritti peciati) ha inficiato la ricerca, una approssimativa conoscenza della bibliografia (anche di quella citata nelle rare note) ha dato vita ad un lavoro che non ha tenuto in alcun conto i risultati raggiunti fino ad oggi sul tema, presentando (al di là dei singoli specifici errori) un quadro generale interpretativo del sistema di produzione libraria per exemplar e pecia non solo notevolmente impoverito rispetto alle nostre attuali conoscenze, ma anche (aspetto questo ancora più grave) non attendibile. Considerato ciò è impossibile riconoscere un qualsiasi merito all'opera.
Note:
[1] Ma scrive l'autrice: "La novità dell'approccio di indagine della presente analisi, essenzialmente rivolta agli aspetti strutturali ed editoriali dei manoscritti peciati, ha sofferto della mancanza di letteratura specifica" (17).
[2] Elencati e descritti in: G. Murano: Opere diffuse per exemplar e pecia (= Textes et études du Moyen Åge; 29) Turnhout 2005.
[3] 80: de bona littera et glosa leg. grossa.
[4] G. Murano: Inter artifices longa est differentia (Dig. 46.3.31). Copisti a Bologna nella seconda metà del Duecento, in: Decretales pictae. Le miniature nei manoscritti delle Decretali di Gregorio IX (Liber Extra). Atti del colloquio internazionale tenuto all'Istituto Storico Germanico, Roma 3-4 marzo 2010, Roma 2012, disponibile online a http://hdl.handle.net/2307/698.
[5] 30 nota 30: PAGIN leg. Pagnin; 62 nota 69: A.I. Pin leg. Pini.
[6] 29: "il formato medio di un testo [sic] universitario è di circa 32 per cm 22"; 50: "Nelle pecie l'interlinea è per lo più "esatta", in modo fa sfruttare al meglio la superficie scrittoria, ed ogni colonna prevede in media 45/50 righe" (qual è la fonte?); 51: "Le principali categorie dei testi universitari sono summae, commentarii, quaestiones, reportationes o [sic] disputationes"; 93: "perché è anche bidellus generalis dell'Università, ovvero colui che svolge mansioni di lettura in aula e lavoro di scrittura".
[7] 90: "Il liber quaestionum, [...] per la sua importanza è destinato ad perpetuam memoriam, perciò viene redatto direttamente da un notaio e riposto nella capsa dell'Università. In questo caso la circolazione fallisce in funzione della conservazione" (90). L'esistenza di testimoni peciati - quale il ms. Darmstadt HLB 853 - prova che anche le raccolte di quaestiones hanno circolato, cfr. G. Murano: Liber questionum in petiis. Osservazioni sul manoscritto Darmstadt 853, in: Studi Medievali, s. III, 33 (1992) 645-694; Murano, Opere n. 795 e n. 796.
Giovanna Murano