Rezension über:

Paul J. Burton: Rome and the Third Macedonian War, Cambridge: Cambridge University Press 2017, XI + 243 S., 4 s/w-Abb., 3 Kt., 2 Tbl., ISBN 978-1-107-10444-0, GBP 75,00
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Rezension von:
John Thornton
Dipartimento di Scienze dell'Antichità, Sapienza Università di Roma
Redaktionelle Betreuung:
Matthias Haake
Empfohlene Zitierweise:
John Thornton: Rezension von: Paul J. Burton: Rome and the Third Macedonian War, Cambridge: Cambridge University Press 2017, in: sehepunkte 19 (2019), Nr. 4 [15.04.2019], URL: https://www.sehepunkte.de
/2019/04/32162.html


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Paul J. Burton: Rome and the Third Macedonian War

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Nella sconfitta di Perseo a Pidna nel 168 a.C., che segnò la fine del regno macedone, già Polibio lesse una svolta epocale nella storia del Mediterraneo antico, la fine dell'equilibrio fra potenze e l'inizio del dominio incontrastato di Roma - aderitos exousia nel greco di Polibio, sistema gerarchico e unipolare nel lessico che Burton adotta dal suo maestro Arthur Eckstein, anticipandone però l'istituzione al termine della guerra contro Antioco III ("Rome's unipolar hegemony had replaced the long-standing formal anarchy and never-ending interstate violence of the Hellenistic state system in fairly short order": 38; cf. 102 e 119). Polibio ed Eckstein sono i primi autori citati da Burton (1), che presenta il suo libro come la prima monografia in inglese "to attempt a full narrative and analysis of the Third Macedonian War, and, by extension, the reign of Perseus" (15).

Sul piano dell'estensione spaziale e cronologica, Burton offre più di quanto il titolo possa far credere. Nell'Introduction presenta brevemente le caratteristiche istituzionali anche degli altri regni ellenistici e delle medie potenze del mondo greco e dell'area balcanica, non solo della repubblica imperiale romana e della monarchia antigonide (con le cospicue novità introdotte in questo campo, negli ultimi decenni, grazie alla documentazione epigrafica macedone, che Miltiades Hatzopoulos più di ogni altro ha contribuito a mettere a frutto). Nel capitolo 2 analizza la preistoria dei rapporti fra Roma e il mondo ellenistico, le guerre illiriche, la prima e la seconda guerra macedonica, e la guerra romano-siriaca; nel capitolo 3, gli ultimi anni di Filippo V, con il progressivo deterioramento dei rapporti con Roma e la tragedia familiare della contesa fra Perseo e Demetrio. Il nucleo centrale del libro è rappresentato comunque dai capitoli 4-6, dedicati rispettivamente al regno di Perseo, all'indagine delle cause della terza guerra di Macedonia e al suo svolgimento. Nel capitolo 7 (Aftermath) e nelle conclusioni, lo sguardo si allarga di nuovo, sia dal punto di vista cronologico, spingendosi fino almeno alla quarta guerra di Macedonia e alla guerra acaica, sia da quello geografico, includendo l'Illiria, le varie comunità della Grecia, le monarchie dei Seleucidi e dei Tolemei, il regno di Pergamo, Rodi e la Tracia. Completano il volume, prima della bibliografia e dell'indice, una serie di appendici dedicate a minuti problemi storiografici, topografici e cronologici.

L'obiettivo principale di Burton è stabilire le cause della guerra "in order to clarify the nature and evolution of Roman imperialism during the middle republican period". Nella convinzione che da ciò debba dipendere il nostro giudizio sull'imperialismo romano, Burton si chiede se il senato abbia colto l'opportunità di dichiarare guerra a Perseo non appena il re ne fornì adeguati pretesti, o se al contrario i Romani abbiano ignorato "Perseus' activities and all such pretexts until other factors forced them to act at the last minute" (56).

Il ripetuto riferimento ai pretesti della guerra rimanda naturalmente a Polibio, che in polemica con autori precedenti ridusse appunto al rango di prophaseis e di archaì le accuse mosse a Perseo da Eumene II in senato e reiterate poi a più riprese dalle autorità romane prima dell'apertura delle ostilità, individuando invece la causa della guerra nei progetti e nei preparativi di Filippo V, lasciati in eredità a Perseo (Polyb. XXII 18, 2-11). L'indagine di Burton parte dall'esame delle singole accuse mosse a Perseo dai suoi nemici, per passare poi all'analisi della tesi di Polibio e di tutte le proposte, da Appiano (Mac. 11, 3) a Bikerman [1], di spiegazione della guerra in chiave di intervento preventivo. Si passa quindi alle teorie che imputano la guerra all'aggressività della politica romana, di cui Burton ammette la plausibilità, in considerazione del dato innegabile che Perseo sembra aver fatto il possibile per evitare il conflitto, ma nega che possano spiegare "the timing of Rome's reaction to Perseus' activities" (117): se il senato avesse realmente cercato un pretesto per attaccare la Macedonia, sostiene, avrebbe dovuto approfittare già delle accuse mosse a Perseo dai Dardani nel 177, o dell'invasione della Dolopia e della marcia attraverso la Grecia fino a Delfi del 175. Più efficace nello spiegare il ritardo della reazione romana sarebbe invece, fra le teorie sistemiche, che concludono la rassegna delle opinioni sulle cause della guerra, l'approccio pericentrico, secondo cui a spingere i Romani alla guerra sarebbe stato il discorso di Eumene in senato nel 172.

Nonostante l'artificio retorico di una certa reticenza a esporre apertamente le proprie conclusioni ("I have tried to present the explanations, by both ancient and modern historians, for why and when the Third Macedonian War broke out as dispassionately and agnostically as possible, both for the sake of clarity, and to encourage readers to make up their own minds": 121), la ripetuta insistenza sulla necessità di spiegare il (presunto) ritardo della dichiarazione di guerra romana - rispetto al discorso di Eumene in senato, ma anche alle azioni di Perseo (i pretesti di Polibio), e persino ad accuse che lo stesso Burton giudica "outright ridiculous", come la denuncia di Massinissa di segrete relazioni diplomatiche fra Perseo e i Macedoni (65; 90-91) - indica il favore di Burton per la tesi di Bikerman. La terza guerra di Macedonia sarebbe da ricondurre al timore romano che gli esiti del conflitto fra Antioco IV e il regno tolemaico potessero rimettere in discussione l'egemonia romana nel Mediterraneo orientale; se Antioco IV si fosse impadronito delle risorse dell'Egitto, un'alleanza con Perseo, che poteva contare sui frutti della politica demografica ed economica inaugurata da Filippo V nei suoi ultimi anni di regno, avrebbe riproposto i timori suscitati, nella generazione precedente, dalla notizia del trattato segreto fra Filippo V e Antioco III ai danni dell'Egitto - sul quale Burton considera "definitive" (107 n. 40) la posizione di Eckstein. [2] Così, la tesi di Burton, che al dibattito sull'imperialismo romano ha già contribuito con una densa monografia sull'amicitia [3], s'inserisce nella recente tendenza alla rivalutazione della teoria dell'imperialismo difensivo: una sorta di ritorno a Mommsen e Maurice Holleaux in cui, nonostante il ricorso all'apparato teorico della dottrina delle relazioni internazionali nelle sue varie correnti, rimane centrale - come risulta dall'insistenza di Burton sul "timing" dell'intervento romano contro Perseo - il vecchio schema che rimproverava al senato ingenui ritardi nella reazione alle minacce provenienti dall'esterno, e ne traeva argomento per attribuirgli un generoso disinteresse per gli affari d'Oriente, confermato dalla rinuncia all'occupazione permanente (183). Per Burton, Roma sarebbe stata disposta fino all'ultimo ad una soluzione diplomatica: sarebbe stato Perseo a peccare di intransigenza (122-123). Mentre Filippo V aveva saputo "to walk a fine line between independence and appeasement, defiance and deference, coolness and collaboration" (55), suo figlio Perseo "failed to adjust" alla nuova realtà dell'egemonia unipolare di Roma (38).

Una piccola serie di evitabili errori sorprende negativamente (50 n. 54: Policratea, la madre di Perseo, figlia di Arato di Sicione; 53: "the adjective used was likely pothos"; 159 n. 129: inversione fra le idi e le calende; 184: l'ambasceria di Gneo Ottavio, ucciso a Laodicea di Siria, posta "after Demetrius' coup"; Callicrate e i suoi "booed whenever they were proclaimed victors at public festivals", quando il riferimento è ovviamente alla pubblica proclamazione durante gli agoni degli onori conferiti ai politici; e si potrebbe continuare).

Complessivamente, il volume, nonostante le perplessità che suscita l'attribuzione a Perseo di intransigenza, e la riproposizione del tradizionale giudizio negativo sul re macedone (160), che meriterebbe forse di essere rivisto, sfruttando anche ove possibile la documentazione epigrafica [4], fornirà una lettura stimolante a chiunque sia interessato al tema della conquista romana.


Note:

[1] E. Bikerman: Notes sur Polybe, III. Initia belli Macedonici, REG 66 (1953), 479-506, in particolare 501-505.

[2] A. M. Eckstein: Rome Enters the Greek East. From Anarchy to Hierarchy in the Hellenistic Mediterranean, 230-170 BC, Malden, MA / Oxford 2008, 129-180.

[3] P. J. Burton: Friendship and Empire. Roman Diplomacy and Imperialism in the Middle Republic (353-146 BC), Cambridge 2011.

[4] M. Mari: L'attività della cancelleria antigonide negli anni delle guerre romano-macedoniche, «Historikà », c.d.s.

John Thornton