Rezension über:

Alison Cooley (ed.): The epigraphic landscape of Roman Italy (= Bulletin of the Institute of Classical Studies; 73), London: Institute of Classical Studies 2000, XIV + 212 S., 4 Karten, 16 s/w-Abb., ISBN 978-0-900587-84-9, GBP 45,00
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Rezension von:
Silvia Orlandi
Università degli Studi di Roma "La Sapienza", Rom
Redaktionelle Betreuung:
Christian Witschel
Empfohlene Zitierweise:
Silvia Orlandi: Rezension von: Alison Cooley (ed.): The epigraphic landscape of Roman Italy, London: Institute of Classical Studies 2000, in: sehepunkte 2 (2002), Nr. 9 [15.09.2002], URL: https://www.sehepunkte.de
/2002/09/2953.html


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Alison Cooley (ed.): The epigraphic landscape of Roman Italy

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Nel maggio 1998 si è svolto a Oxford un workshop dal titolo "New Perspectives on the epigraphy of Roman Italy", organizzato da Alison Cooley in collaborazione con Alan Bowman e il Centre for the Study of Ancient Documents. Il volume rappresenta il risultato di quella giornata di studi, e raccoglie una serie di saggi di autori inglesi, dedicati a documenti epigrafici di diversa natura e datazione, tutti provenienti da vari centri dell'Italia romana. Si tratta in genere di iscrizioni ben note e molto discusse, per le quali vengono avanzate nuove proposte di lettura e di interpretazione, che mirano a valorizzare il rapporto tra materiale epigrafico e fonti di altra natura (passi di autori antichi, papiri, dati archeologici e topografici) e a inserire i documenti nel contesto storico e sociale che li ha prodotti.

Il volume, nel quale i contributi seguono grosso modo un ordine cronologico, si apre con un saggio di G. Bradley, "The colonization of Interamna Nahars" (3-17). Il problema dello status di Interamna Nahars, l'attuale Terni, tra la fine del IV e l'inizio del I sec. a. C. è un tema su cui molti studiosi hanno espresso opinioni divergenti. I più (tra cui Taylor, Wiseman, Humbert) pensano che fosse un municipio già prima della guerra sociale. Bradley, invece, preferisce pensare che, prima di allora, Interamna fosse stata una colonia latina, fondata subito dopo la conquista della Sabina ad opera di Manio Curio Dentato nel 290 a. C., come le vicine Narnia e Spoletium. In questo senso parlano soprattutto i dati archeologici relativi alla precoce costruzione delle mura, all'impianto urbanistico con isolati rettangolari e all'estensione della necropoli. Con tale ipotesi non contrasterebbero né i dati relativi alla storia successiva del centro desumibili dalle fonti epigrafiche, né il silenzio delle fonti letterarie. Tornando recentemente sull'argomento, tuttavia, Maurizio Fora ha invitato a considerare con prudenza l'ipotesi del Bradley, preferendo pensare, con Gabba, che prima della guerra sociale Terni fosse una città indipendente in cui lo stato romano esercitava forme di controllo attraverso confische di territori distrubuite viritanamente a coloni romani, non necessariamente accompagnate da una concessione della civitas ai locali [1].

Di difficile interpretazione si presenta anche il documento preso in esame nel contributo di F. Glinister, "The Rapino Bronze, the Touta Marouca and sacred prostitution in early central Italy" (19-38). Si tratta di una lastrina di bronzo rinvenuta nel 1841 a Rapino, una località a circa 25 Km. da Chieti, nel territorio un tempo abitato dai Marrucini, e attualmente conservata nel Museo Pushkin di Mosca. Vi è incisa un'iscrizione in lingua osca e carattari latini [2], datata tra l'inizio del III e l'inizio del II sec. a. C., che costituisce il più lungo dei documenti marrucini a noi noti. Su questo testo è tornato recentemente A. La Regina [3], che ha proposto di interpretarlo come una legge relativa alla vendita di schiave sacre a Giove Padre, il cui ricavato doveva andare al tesoro di Cerere, a testimonianza di un revival della prostituzione sacra tra i Peligni e i Marrucini dopo la seconda guerra punica. L'autrice, invece, sulla base di complesse considerazioni di ordine linguistico, preferisce accogliere l'opinione espressa da J. Martinez-Pinna [4], secondo la quale il testo si riferirebbe invece a carne sacrificale cotta e distribuita tra i partecipanti a un rito in onore di una divinità locale. Più in generale, viene posta in dubbio l'esistenza stessa della prostituzione sacra, non solo in ambito marrucino, ma anche, ad esempio, nel santuario di Pyrgi, per il quale le fonti archeologiche e letterarie sono, secondo l'autrice, meno sicure e univoche di quanto si possa pensare.

La revisione di un documento noto da molto tempo costituisce il punto di partenza anche del saggio di E. Bispham, "Carved in stone: the municipal magistracies of Numerius Cluvius" (39-75). Lo spunto è rappresentato dalla riedizione, da parte di M. Cébeillac Gervasoni [5], di un'iscrizione puteolana (CIL X 1573) posta in onore di Numerius Cluvius, che rivestì varie magistrature a Capua e in altri centri della Campania intorno alla metà del I sec. a. C. Un'accurata analisi della documentazione fotografica relativa a questo documento e della tradizione manoscritta da cui è nota un'altra epigrafe di Pozzuoli che verosimilmente menziona lo stesso personaggio (CIL X 1572) hanno consentito all'autore di apportare interessanti precisazioni alla lettura e all'integrazione delle due iscrizioni (sintetizzate in una riedizione di entrambi i testi a p. 67), che risultano poste in due momenti successivi e presentano leggere, ma significative differenze nell'impaginazione e nel contenuto. Lo studio dei dati di rinvenimento, inoltre, suggerisce la possibilità che entrambi i documenti provengano dal foro repubblicano di Puteoli, che probabilmente sorgeva sulla stessa area del successivo foro augusteo. Sulla base della nuova lettura, infine, le iscrizioni di Puteoli vengono utilizzate per illustrare il fenomeno dell'ascesa sociale e politica della cosiddetta borghesia municipale italica alla fine dell'età repubblicana, di cui Numerius Cluvius costituisce un caso eccezionale, ma non isolato.

A questo tema si riallaccia idealmente il contributo di M. Pobjoy, "Building Inscriptions in Republican Italy: evergetism, responsibility, and civic virtue" (77-92). L'autore passa in rassegna le iscrizioni repubblicane relative ad interventi di costruzione o restauro di edifici pubblici ad opera sia di magistrati locali che di privati cittadini nei centri grandi e piccoli dell'Italia romana, e osserva come sia spesso difficile, sulla base del solo formulario, stabilire con certezza se un intervento fosse eseguito con o senza la partecipazione dell'autorità locale, con fondi pubblici, privati o finanze pubbliche integrate da quelle private. Non sempre, quindi, sappiamo se si debba parlare effettivamente di un atto di evergetismo, cioè di un beneficio fatto alla comunità senza che ve ne fosse l'obbligo legale, o più semplicemente dell'adempimento di un dovere. A conclusioni simili, ma più sfumate perché basate su una più ampia e dettagliata base documentaria, era giunto recentemente S. Panciera [6].

Ad un'intera classe di documenti è dedicato anche il saggio di V. Hope, "Fighting for identity: the funerary commemoration of Italian gladiators" (93-113). L'autrice parte da un'analisi delle non molte iscrizioni sepolcrali relative a gladiatori per fare una serie di considerazioni sullo status giuridico e sociale dei defunti e dei dedicanti, sulle specialità più popolari e diffuse, sull'enfasi posta nel numero dei combattimenti e delle vittorie. Confronta, poi, i dati desunti dalle iscrizioni con quelli ricavabili dalle raffigurazioni che a volte le accompagnano e con il contenuto degli epitaffi di altre categorie professionali come gli attori e i militari. Da tutto ciò emerge come la figura del gladiatore avesse un ruolo ambivalente nella società romana, in quanto al tempo stesso fonte di ammirazione e oggetto di disprezzo. Quest'immagine trova sostanziale conferma nelle iscrizioni di gladiatori raccolte nei volumi della serie Epigrafia Anfiteatrale dell'Occidente Romano finora pubblicati e potrà essere verificata in quelli di prossima pubblicazione, relativi al Latium adiectum e alla Campania (destinati verosimilmente a correggere la leggera sproporzione riscontrata dall'autrice a favore della documentazione proveniente da centri dell'Italia settentrionale).

Di più ampio respiro è lo studio di B. Salway, "Prefects, patroni, and decurions: a new perspective on the album of Canusium" (115-171), dedicato ad un documento tanto importante quanto studiato come l'albo decurionale di Canosa. In particolare, l'autore si concentra sulla lista dei patroni della città, per i quali recenti scoperte epigrafiche e papirologiche costringono a rivedere le identificazioni e le datazioni fin qui comunemente accettate. Su queste nuove basi, alcuni dei patroni clarissimi di Canosa vengono considerati cavalieri che avevano ricevuto il rango senatorio a titolo onorifico già prima di diventare prefetti al pretorio. L'ordine in cui sono elencati nell'albo, poi, rifletterebbe, secondo l'autore, la loro anzianità di cooptazione nel gruppo dei patroni e il ruolo da loro svolto all'interno del consilium principis, in quanto sede deputata alla discussione di dispute relative a comunità italiche e provinciali, in cui la figura dei patroni era fondamentale. L'occasione che determinò la decisione di incidere su bronzo il risultato di una particolare lectio del senato locale, infatti, sarebbe stata la concessione, da parte dell'imperatore, di aumentare il numero dei decurioni di Canosa, in proporzione alla crescita economica della sua cittadinanza.

Al complesso problema del ruolo religioso e politico della comunità dei Laurentes Lavinates nell'ambito dello stato romano, infine, è dedicato il contributo di A. Cooley, "Politics and religion in the ager Laurens" (173-191). L'importanza che Lavinium ebbe nelle tradizioni religiose romane fin dal VI sec. a. C. è un fatto ben noto, così come il declino che il centro conobbe tra il II e il I sec. a. C. e il suo revival all'inizio dell'età imperiale, quando si colloca anche la fondazione del centro di Vicus Augustanus. Da allora alla fine del IV secolo la documentazione epigrafica testimonia in vario modo i legami di questa località con Roma, e alla luce di queste considerazioni viene anche avanzata una nuova proposta di lettura e di interpretazione per un'iscrizione (CIL XIV 2071), a lungo ritenuta perduta e recentemente ritrovata nella zona di Tor Paterno. Alle iscrizioni ricordate dall'autrice, del resto, può ora essere aggiunta l'eccezionale serie di basi onorarie recentemente rinvenuta a di Laviunium, che della vitalità di questo centro in età imperiale costituisce un'importante conferma [7].

Nel complesso, dunque, il volume (corredato anche da un utile indice delle fonti e dei soggetti) si presenta come una raccolta di studi vari per estensione, originalità e livello di approfondimento, ma tutti utili per comprendere come in epigrafia nessuno studio possa essere considerato 'definitivo', e come anche i documenti più studiati, ad un riesame critico e attento, possano offrire sempre nuovi spunti di ricerca e di riflessione.

Anmerkungen:

[1] M. Fora, in: Supplementa Italica, n. s. 19, Roma 2002, 17-40.

[2] E. Vetter, Handbuch der italischen Dialekte, Heidelberg 1953, 153-155 n. 218.

[3] A. La Regina, in: I luoghi degli dei, a cura di A. Campanelli e A. Faustoferri, Pescara 1997, 62-63; id., in: Ultra terminum vagari. Scritti in onore di Carl Nylander, Roma 1997, 171-173.

[4] J. Martinez-Pinna, ZPE 120, 1998, 203-214.

[5] M. Cébeillac Gervasoni, Puteoli 11, 1987, 3-12 = AE 1988, 294.

[6] S. Panciera, in: Actes du Xe Congrès International d'Épigraphie Grecque et Latine, Paris 1997, 249-290.

[7] Pubblicate da D. Nonnis, Rend. Pont. Acc. 68, 1995-96, 235-262.


Silvia Orlandi