Rosalind Thomas: Polis Histories, Collective Memories and the Greek World, Cambridge: Cambridge University Press 2019, XII + 490 S., zahlr. Tbl., ISBN 978-1-107-19358-1, GBP 105,00
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Chi entri in una biblioteca e prenda in mano l'ultimo volume di Rosalind Thomas, dedicato alle storie locali nel mondo greco antico, ha un'immediata sensazione di piacevole solidità, alla quale concorrono le dimensioni dell'opera, naturalmente, ma forse ancor più il prestigio dell'autrice stessa, che in una serie di rigorosi studi ha esplorato vari aspetti del rapporto tra oralità e scrittura in Grecia e, in ambito storiografico, ha riservato una speciale attenzione a Erodoto. Tra i molti suoi titoli che si potrebbero elencare ricorderò qui soltanto la triade composta da Oral Tradition and Written Record in Classical Athens, Cambridge 1989; Literacy and Orality in Ancient Greece, Cambridge 1992; Herodotus in Context. Ethnography, Science and the Art of Persuasion, Cambridge 2000. Ora, Rosalind Thomas volge la propria indagine al complesso delle storie poleiche e regionali greche, e in questa larga prospettiva risiede senza dubbio la novità dell'impresa. Vi sono libri e commenti importanti su alcuni storici locali o su alcuni settori della storia locale in Grecia (gli attidografi, ad esempio, ossia gli scrittori di Atthides o storie di Atene), ma non vi è un saggio autonomo e complessivo sulla sorella minore della "grande storiografia" di Erodoto, Tucidide e Polibio. Un merito indiscutibile di quest'opera è riempire tale lacuna bibliografica. La quantità di storici greci locali e di titoli loro attribuiti (vd. 31-32), unita alla natura di norma molto frammentaria della documentazione letteraria ed epigrafica, ha causato la lunga resistenza di questo materiale pulviscolare a un'interpretazione storica completa e complessiva.
La matura fatica di Rosalind Thomas dimostra ora che la sfida esegetica può essere vinta. Il libro si compone di una serie di capitoli che affrontano dapprima il problema della natura della storia locale, rispondendo a una serie di interrogativi (che cos'è una polis history? qual è la sua struttura narrativa e come è organizzata la sequenza dei fatti? quale il rapporto tra storia locale e cronaca? come definire il mythōdes, inteso come contenuto di determinate sezioni narrative? che cosa ci dice l'uso dei Sammelzitate, quali per esempio "dicono gli storici di Nasso" o "gli autori di storia euboica"?). Gli ultimi cinque capitoli affrontano partitamente alcune importanti realtà locali: Mileto e Lesbo (cap. 6), Samo (7), Atene (8); nel nono capitolo è la volta delle Politeiai aristoteliche, poco prima di approdare a una riflessione conclusiva (10) sulle storie di città e isole tra IV secolo ed età ellenistica.
La tesi generale, un filo rosso che dovrebbe essere unificante, è che lo scrivere di storia locale, ossia di una realtà circoscritta come può essere una polis o un'isola o una regione della Grecia, sia un atto di affermazione identitaria espressa da piccoli organismi sociali e politici in un'epoca di crisi. Schiacciate tra i grandi regni ellenistici in urto l'uno con l'altro, e fragili nel loro timore di perdere la propria identità, le poleis del vecchio mondo reagiscono puntando anche sulla storia e sul "capitale simbolico" che essa conteneva e poteva elargire (cfr. in part. 104, 394-95). È, questa di Rosalind Thomas, un'interpretazione che definirei plutarchea, perché declina in riferimento all'ellenismo il valore simbolico del passato 'classico' come è avvertito dalle élite greche sotto l'impero di Roma, in un complesso equilibrio tra ripiegamento nostalgico e volontà di resistenza.
La tesi ha senza dubbio un ampio spettro di validità; forse perfino troppo ampio, se è vero che durante l'ellenismo tutte le realtà politiche al di fuori dei grandi regni dei diadochi sono giocoforza deboli e marginali; lo sono a lungo, peraltro, ed è quindi molto facile veder emergere dei nessi tra fragilità politica e fioritura storiografica a livello locale. In alcuni casi, poi, il modello funziona solo in parte: in età ellenistica le Cicladi, prese in esame nel capitolo 3, vivono sempre di più all'ombra di Delo, e tale "oscurità" è considerata uno stimolo supplementare, in quei contesti, alla celebrazione del passato e alla conservazione del presente nella memoria storica (106). Nel caso di Delo, però, fioritura politica, economica e storiografica (Phanodikos, Semos: cfr. 128) coincidono, e corrispondono alla fase culminante del periodo d'indipendenza dell'isola.
Si può far storia locale per molti motivi, quindi, e Rosalind Thomas del resto non cerca mai di applicare meccanicamente idee precostituite. Il libro si segnala per numerose riflessioni sul fare storia in generale, oltre che sul nesso tra definizione di identità e memoria storica; a questo riguardo, tiene certamente conto della intentionale Geschichte di Hans-Joachim Gehrke, [1] ma la rielabora in modo assai libero rifondendola all'interno di una prospettiva personale che l'oltrepassa, poiché in Gehrke la storiografia è tendenzialmente separata dagli usi identitari della memoria (o per lo meno la connessione rimane a uno stadio di latenza), mentre il lettore di questo volume rimane spesso addirittura stupito dalla naturalezza con cui Rosalind Thomas varca i confini, immergendo completamente gli storici nel contesto sociale e facendo della voce storiografica una delle tante forme di uso identitario e 'autoassertivo' del passato da parte della comunità. Si pone quindi il problema teorico della specificità della storiografia, che non mi risulta affrontato con chiarezza. Registro tuttavia con piacere una fiducia oggi inusitata nel concetto di genere storiografico, necessario per la definizione stessa dell'oggetto del libro (se si parla di polis histories si postula infatti un'articolazione del genere, e ancor prima una qualche forma di distinzione tra la storia e gli altri generi letterari, lontani o contermini). In questo la studiosa non solo si discosta dalla vulgata corrente, ma corregge almeno in parte un'impostazione che fu sua all'altezza di Herodotus in Context.
Le lacune bibliografiche sono inevitabili in un libro di simile raggio prospettico: ad esempio, per la Cronaca di Lindo (che ha un posto un po' troppo marginale nell'opera) si nota l'assenza della corposa silloge intitolata La gloria di Athana Lindia, in ASNP s. 5, 6/1 (2014); un testo come Die griechische Geschichtsschreibung, I 1-2, Berlin 1967, di Kurt von Fritz, non dovrebbe mancare in un lavoro sulle storie locali, specialmente là dove ci si pone il problema dell'orografia e dei limiti della strutturazione annalistica del racconto (38, 42, 56; cfr. von Fritz, 1, 96-97; 2, 74-75 n. 80). Occasionali e quasi altrettanto inevitabili in un'opera di questa mole le sviste (a 72 n. 129 la Sicilia è inserita nella Magna Grecia; a p. 105 il passo sulla strage dei Melii è indicato come Thuc. 5.114 invece del corretto 116). Ma sarebbe meschino insistere su questi particolari. È più significativa, casomai, un'altra menda del volume, che mi pare di riconoscere nella profondità non sempre soddisfacente dell'analisi testuale. Ne è un esempio il recupero della testimonianza di Dionisio di Alicarnasso sugli storici pretucididei (De Thuc. 5 e 23), che Rosalind Thomas considera come una genuina e affidabile valutazione stilistica della prima storiografia greca: "Even if Dionysios did not read every one of these, it seems inconceivable that he lifted this famous list from a single secondary source, as sometimes suggested" (33; cfr. 102 n.7). Il riferimento è a Felix Jacoby e alla tesi di una derivazione della pagina dionisiana da Teofrasto. Invano il lettore cerca una dimostrazione del fatto che tale derivazione sia inammissibile; e deve constatare come vengano del tutto ignorati i paralleli con due passi di Cicerone (Orator 39; De oratore 2.53-54) che rendono tutt'altro che inconcepibile - e anzi, direi, assolutamente sicura - la presenza di Teofrasto come fonte per il disegno di sviluppo degli stili e dei generi storiografici in Dionisio (dalla grazia della semplicità a una più matura elaborazione retorica, dalla storia locale alla grande storiografia). [2]
Analoghe considerazioni valgono per l'elenco di storici di De Thuc. 5: non lo si può considerare teofrasteo, ma non può nemmeno essere una decantazione di letture personali del retore come vorrebbe la studiosa: quale testo di Ecateo, di Acusilao, o anche di Damaste potrebbe mai aver suggerito a un lettore intelligente come Dionisio che si trattasse di storici locali? La verità è che nel De Thucydide Dionisio non porta solo la propria esperienza di lettore, ma compie una sintesi tra gli esiti, vari e contraddittori, di una tradizione critica sulle origini della storiografia che nel I secolo a.C. era già ben sviluppata.
L'obliterazione di alcuni problemi importanti, come la nascita della storiografia locale nel suo rapporto con Erodoto o l'esistenza di strati di memoria orale antecedenti alla storiografia, potrebbe essere un'ulteriore conseguenza della debole propensione a un autentico corpo a corpo con i testi. Ma in un libro importante come quello di Rosalind Thomas bisogna apprezzare le molte cose che esso offre, più che soffermarsi sulle lacune. È quanto certamente faranno i molti lettori che esso avrà, e che non esiteranno a considerarlo un punto d'arrivo (e di ripartenza) per gli studi sulla storiografia locale nel mondo greco.
Note:
[1] Per la genesi del concetto cfr. soprattutto H.-J. Gehrke: Geschichte als Element antiker Kultur. Die Griechen und ihre Geschichte(n), Berlin / Boston 2014, 5 e n. 11.
[2] Per l'analisi dei passi rimando a L. Porciani: Prime forme della storiografia greca. Prospettiva locale e generale nella narrazione storica, Stuttgart 2001, 39-40.
Leone Porciani